venerdì 20 novembre 2009

LA LEGGE E LA REALTA'

A chi, come noi è al terzo figlio, il congedo parentale suona abbastanza famigliare. In breve: non si tratta solo della famosa “maternità” che spetta alla mamma nei mesi precedenti e successivi al parto per il meritato riposo e per garantire al neonato una presenza costante durante i primi momenti di vita in questo mondo. Si tratta anche della possibilità data al padre di assentarsi dal lavoro per un totale di sette mesi nell’arco dei primi otto anni del bambino.
Martedì 17 è nata Marina e da lunedì mi prendo il (suo) meritato congedo perché possa godere anche del padre a tempo pieno e per essere minimamente d’aiuto nell’impegnativa, quanto gratificante, gestione del resto della truppa e di tutto l’ambaradan.
E’ di ieri, invece, la notizia che il Tribunale di Firenze, ha riconosciuto la possibilità di "andare in paternità" anche da un mese o due precedenti alla presunta data del parto, e di conseguenza per i quattro o tre successivi. La decisione parte da un cambiamento di principio dettato anche dalla Corte Costituzionale. Un tempo il periodo di maternità era pensato per salvaguardare la salute della madre. Adesso si intende anche come tutela di quella del bambino. E allora il ruolo del padre diventa fondamentale, anche se si è ancora in fase di gestazione. Aiutare la compagna incinta nell'ultimo periodo della gravidanza vuol dire anche occuparsi del nascituro.
Tutto questo è un bene. Ma non fa i conti con la realta’.
Ogni giorno è una frenetica ed appassionata corsa contro il tempo per organizzare tutto e gestire ogni impegno dei figli con le necessità del lavoro. Coordinarsi per arrivare puntuale senza quindi indispettire nessuno, soprattutto chi da sempre ha sposato il lavoro piuttosto che la moglie o chi accudisce piu’ la propria poltrona e la propria carriera che i propri figli. I capi molto spesso sono così. Le loro priorità non sono le mie, non so se sono le vostre. Già è difficile gestire ritardi, permessi, imprevisti per evitare musi lunghi ed un’aria piuttosto pesante che vorrebbe (ma non ci riesce) incutere sensi di colpa figurarsi settimane di assenza maschile. Ben comprendo le necessità aziendali, veramente, ma chi comprende le mie? Le nostre? Quelle di milioni di famiglie?
Alla base di tutto Il problema è sempre il solito, il problema è culturale. Fare una legge significa riconoscere un diritto, sancirlo nel sistema che tiene in piedi un paese ma chi, poi, lo puo’ difendere? Tocca al singolo far capire ai propri superiori che ci sono delle cose piu’ importanti e che non si tratta solo della gestione pratica di una famiglia, ma si tratta delle vite dei nostri figli; tocca a me, tocca noi superare timori (e ricordarsi di quel diritto aiuta) per chiedere il permesso di stare a casa, tocca a noi mandar giu’ rospi e brutti musi e prepararsi, perchè prima o poi te la faranno pagare in termini di pressioni e carichi di lavoro.
Se si risolvesse il problema dal punto di vista culturale sarebbe molto piu’ facile. Dovremmo vivere in un mondo molto meno maschilista, in un luogo utopico dove ci ferma di fronte al mistero ed alla bellezza della vita, dove la si mette davanti a budget e fatturati, dove se corressimo (per andare dove poi?) di meno staremmo tutti sicuramente meglio. In un mondo nel quale chi diventa capo possa ricordare di avere avuto un padre che gli è stato vicino e che a sua volta dica “Ti è nato un figlio? Stagli vicino, stai vicino a tua moglie, fai sentire la tua presenza. Qui ci arrangiamo. Anche mio padre ha fatto così con me e anche se ero molto piccolo me lo ricordo”.
Sono pazzo o sto sognando? Nella nostra società è impresa molto ardua, sto chiedendo molto me ne rendo conto ma chiederei una cosa normale, invece qui si va sempre contrariamente al buon senso.
Quella norma di cui parlavo inizialmente si esaurisce da sola e i capi possono dormire sonni tranquilli. La stessa norma che sancisce quel diritto ne fissa anche il termini economici: il padre che sta a casa percepisce, a carico dell’INPS, il 30% dello stipendio. Dove vuoi andare con questa miseria? Ancora una volta non si fanno i conti con la realta’. O, meglio, si fanno eccome e allora rinunci, limiti al minimo.
E non mancano, infine, i cattivi esempi. C’è una ministra al quinto mese di gravidanza. Nei giorni scorsi ha dichiarato, sicura e fiera, che non farà mancare al Paese il suo servizio per neanche un giorno e che sarà sempre presente al suo posto nonostante la sua condizione. Prima e dopo il parto. Cattivo, cattivissimo esempio. Ma di cosa vuole andare fiera?
Primo, il riposo è obbligatorio e quindi non rispetta un legge dello Stato che rappresenta. Secondo, non aiuta a far comprendere, a chi deve comprendere e dando pure eco, il diritto di cui si trova ad essere portatrice. Sarebbe proprio una bella opera da ministro, un ottimo servizio al Paese se decidesse di rimanere ad accudire suo figlio piuttosto che delegare ad altri. Ma, ripeto, qui siamo nel paese del rovescio. Suo figlio non capirà, domani, l’esigenza di chi gli chiederà di assentarsi dal lavoro per una nascita. Ai miei figli, spero, saranno utilmente serviti questi momenti strappati ad una società che tradisce quella fiducia che Dio rinnova all’uomo ogni volta che nasce un bambino.

giovedì 4 giugno 2009

4 GIUGNO 1989


Giorgio è un amico di vecchia data, scuole superiori. Il destino poi ci ha fatto intraprendere strade diverse per molti anni e da poco l'ho incontrato nuovamente seppur telefonicamente con la reciproca promessa di trovarci. Sempre il destino ha voluto che si accasasse a Mestre 5 anni fa, nello stesso periodo in cui noi ci spostavamo a Venezia. Però non ci si siamo mai incontrati anche se lui passa sotto casa nostra, per lavoro, molto spesso.
Tra i molti momenti passati assieme, non solo di studio, uno in particolare lo identifico con lui e che in questi giorni riaffiora dopo una ventina d'anni.
Giugno 1989, una zia ci aveva prestato gentilemente la sua casa di montagna nella quale ci eravamo in qualche modo "ritirati" in preparazione della maturità.
Giorgio ed io eravamo, politicamente parlando, simpatizzanti della sinistra ed in quel periodo giovanile, come spesso succede ai giovani, puntavamo ad estremizzare e, inoltre, non essendo ancora caduti muri e ideologie, sinistra significava PCI.
Studiando economia, ci si chiedeva e si discuteva della proprietà dei mezzi di produzione e ci si interrogava sullo sfruttamento capitalistico del lavoro, sul comunismo reale e sui valori dell'utopia. Valori di uguaglianza, solidarietà, di equa distribuzione della ricchezza e della libertà. Ci pareva che sacrificare un po' di libertà in nome di una uguaglianza palpabile fosse un gioco che valesse la candela. Ma non trapelava mai tutto dai paesi del blocco comunista e il comunismo visto da qua era più bello, nel senso del'utopia, che vissuto da là.
In questo contesto arriva, come un pugno in faccia, la notizia che l'esercito cinese ha attaccato e massacrato gli studenti che da settimane manifestavano pacificamente in Piazza Tienanmen. Da giorni ogni momento pareva buono perchè i vertici della nomenclatura cinese, si aprissero al dialogo con gli studenti. Eravamo in attesa del meglio, arrivo' il peggio.

"La repressione di piazza Tien A Men poneva fine a quella che è stata definita la "primavera" di Pechino. Il 18 aprile 1989 un pugno di studenti, diventati nel corso delle settimane alcune migliaia, avevano occupato piazza Tien A Men al grido di "Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la Cina". Chiedevano di rimettere in sesto l'economia, che già dall'anno precedente viaggiava tra i flutti del caos più totale, e di avere più voce nelle scelte future del paese. Morto Hu Yaobang, l'ex segretario del partito licenziato per aver appoggiato le rivolte studentesche del 1987, gli studenti trovarono in Zhao Zyiang un loro paladino. "Gli studenti sono patrioti. Vogliono solo denunciare i nostri errori" aveva affermato Zhao il 4 maggio. In tutta risposta il 20 maggio fu introdotta la legge marziale, mentre Zhao veniva progressivamente estromesso dai vertici del partito. Il 28 maggio gran parte della protesta studentesca era rientrata, sconfitta per sfinimento dal lungo ma incruento braccio di ferro con il potere. Poi il massacro dei piu' resistenti".

Fu un duro colpo. La mente cercava introvabili ragioni a quello che stava accadendo ufficialmente per difendere l'ideologia. Il cuore andava dalla parte opposta. 
Era l'ennesima delusione, dopo quelle lette sui libri di storia della Primavera di Praga ed invasione dell'Ungheria, vissuta direttamente.
Si crea una lacerazione perche' la mente avverte e percepiscela tragica aberrazione della dittatura dello schiacciamento della libertà sotto i cingoli dei carri armati, dei diritti negati. Il cuore non lo accetta perchè accettare è delusione e sofferenza. Elevati valori umani venivano rinnegati in nome del potere e la loro difesa si giustificava con la loro stessa negazione. In qualche modo l'ideologia cercava giustificazioni alle proprie tragedie per perpetuare se stessa.
E' un passagio difficile, quello della presa di distanza, e avviene solo "da grandi". Solo allora hai la capacità critica per prendere le misure dal mondo che ti circonda. Ragionare con la propria testa, essere veramente liberi ed indipendenti è qualcosa di grandioso che vorrei trasmettere ai miei figli, ma sono consapevole che ogni stagione ha i suoi frutti. L'importante è seminare bene.
Comunque torniamo a Tienanmen. Era il 4 giugno 2009. Sono passati 20 anni giusti giusti. 
La Cina era lontana, era un paese comunista e c'era ancora il Muro di Berlino, quindi vigevano i trattati di Yalta e la divisione del mondo in due blocchi. Si guardava con orrore quello che accadeva dopo le legittime rivendicazioni degli studenti. Si guardava con ammirazione le immagini dello sconosciuto studente che fermo' la colonna di tank parandosi davanti a loro sulle strisce pedonali e con le borse della spesa in mano. 
Armato di borse della spesa, vi pensate? La tragedia esplosa dentro una normalità. Il coraggio lo spinse ben oltre: salì sul carro per parlare con il conducente e quello che gli ha detto possiamo solo immaginarlo ma potrebbe essere: "perchè in nome del popolo andate contro il popolo?"
Quell'immagine ha fatto giro del mondo ed è l'immagine simbolo di quella resistenza.
Il massacro degli studenti avveniva dopo giorni di mediazioni mancate, di dialogo sordo con  le autorità (ma non i vertici del PC cinese) e soprattutto di silenzio. La quiete preparava la drammatica tempesta.
Il 1989 fu l'anno horribilis per il comunismo. "Già liquidato in Polonia e ormai boccheggiante in Russia, nei sei-sette mesi successivi il comunismo sarebbe caduto in Ungheria, nella Germania dell'Est, in Cecoslovacchia, in Bulgaria, in Romania, e un po' più tardi in Albania. Quei regimi vacillavano infatti da tempo, sempre più debilitati dalle penurie che imponevano alle popolazioni e dall'assoluto discredito che circondava i loro gruppi dirigenti. Ma la Cina era diversa. Un decennio di riforme economiche, una crescita del Pil che superava il 10 per cento annuo, un benessere ormai diffuso nelle aree urbane, e soprattutto un apparato del potere ancora ferreo nel totale controllo della società, sembravano aver messo il comunismo cinese al riparo da ogni brutta sorpresa".
Invece dopo i fatti dei primi di giugno 1989 la Cina comprese che doveva dare una svola nel senso della modernità al proprio paese ed aprirsi al mercato.
Oggi, dopo 20 anni, la Cina è il secondo paese al mondo per crescita economica ed si trova al primo posto per quanto riguarda il flusso degli investimenti esteri. Oggi la Cina fa parte del mercato internazionale, ha un bacino di consumatori e di lavoratori a bassissimo costo molto appetibile al libero mercato. Oggi la Cina è interesse di molti paesi occidentali che producono e vendono, acquistono e scambiano merci. E' un boccone molto ghiotto al palato vorace della globalizzazione.
In Cina ancora oggi c'è un sistema di governo socialista ed i diritti umani non sono limpidamente riconosciuti nè tanto meno rispettati. In Cina oggi sono stati oscurati i siti internet "per manutenzione" per evitare di dare risalto a commemorazioni della rivolta e della strage degli studenti. Qui da noi non c'è nessuna manutenzione da fare ma non ho visto, comunque, particolare attenzione al fatto.
La Cina di oggi non fa piu' paura e non interessa se è ancora un paese comunista. Che importa? Il muro è caduto e il mercato si è aperto.
Io vado a chiamare Giorgio, ci dobbiamo incontrare, anche noi, vent'anni dopo.


martedì 26 maggio 2009

ORMAI E' UNA CLASSICA



Non so esattamente quando un evento che si ripete periodicamente nel tempo si possa definire un classico. Fattosta che dopo quattro appuntamenti in 3 anni l'anomala  gita del GAM qui da noi in laguna  è diventata un punto fisso della sua nutrita programmazione.
Domenica 24 maggio ci aspetta, nella calura umida fuori tempo ma tipica del posto, la laguna nord con alcune delle sue isole piu' significative.
Dopo averci prelevato davanti al piazzale della ferrovia la barca ci porta fuori dalla città verso l'isola che piuù di ogni altra e' testimone dell'alba di Venezia: Torcello - Terra e Cielo.
Un viaggio in barca ha sempre un suo fascino, io non mi sono ancora abituato ed ogni volta è una bella sensazione. Questo in particolare, in poco piu' di un'ora, ci fa lasciare alle spalle il turismo di massa, vociante e scontato, e ci immerge nel silenzio della laguna, lontani dalla città. 
Il silenzio e la pace, il senso di lontananza e di quiete saranno elementi che caraterizzano buona parte della giornata pur nel contenuto frastuono della presenza turistica.
A Torcello si tocca con piede quelle che furono le prime terre emerse, anche se parzialmente, abitate dalle genti venete che vivevano a ridosso della laguna. Qui vi trovarono rifugio quando le invasioni barbariche, al tramonto dell'Impero romano, spingevano i residenti a trovare riparo altrove. Dopo che Unni, Vandali, Ostrogoti se ne erano andati si ritornava alla vita di sempre, sulla terra di sempre: Altino e Concordia soprattutto. Fino all'arrivo dei longobardi che invasero l'entroterra per rimanervi in modo stanziale e quindi i veneti non poterono piu' ritornare alle loro case. Allora trasferirono a Torcello e isole limitrofe sedi civili ed ecclesiastiche riproponendo in laguna gli ordini sociali che già conoscevano bene.  Torcello divenne un grandissimo polo commerciale che necessitava addirittura di tre porti per poter esaurire tutte le attività navali. Cosa da non credere  l'isola vantava circa 300.000 abitanti, oggi ne conta 16 ma cio' che è rimasto è degno testimone di quello splendore, su tutto la Basilica di Santa Maria Assunta e i suoi mosaici.
Nell'attesa del nostro turno di visita, salgo, con pochi altri, al campanile: la vista è mozzafiato. Si riesce a dominare tutto e, dall'alto, si scoprono edifici meravigliosi, seconde case, giardini ricamati ed impreziositi da chi ama questa terra e si aggrappa ad essa per non farla morire di abbandono. 
Gia' una volta questa fragili terre, parzialmente emerse, ed in continua balia dell'andamento delle maree furono abbandonate. Accadde quando Venezia si impose come centro commerciale e politico, decentrando il fulcro di questa nuova società. L'aria malsana dovuta all'impaludamento dell'area torcelliana ha fatto il resto. 
Ci attende la barca per ripartire. Una giornata così, scopriremo poi, passa comunque in fretta. Abbiamo tempi ben scanditi. Il caldo inizia a farsi sentire in modo pesante gli spostamenti in barca sono lunghi ma passano anche per chi, in qualche modo, ci è abituato perchè, ripeto, mantengono il loro fascino di anormalità.
Seconda tappa: Burano, l'isola dei merletti e non solo. Anche degli "essi" e dei "buranei", per esempio. Dolci carichi di burro e vaniglia che venivano conservati in mezzo alla biancheria per profumarla di buono. I merletti dicevo; si racconta che avventurosi navigatori di Burano resistettero, per amore della promessa sposa, all'attrazione delle sirene, come degli Ulisse lagunari, e il loro capitano ebbe in regalo un pizzo nato dalla schiuma del mare. Una volta tornato in isola e donato il merletto alla morosa, questa fu così invidiata dalle altre ragazze che iniziarono subito cercare di replicare tale meraviglia lavorando di uncino.
Burano non è solo questo, è anche colori, case semplici di chi vive di pesca, tranquillità, la luce che troviamo esalta al massimo la tavolozza dei colori di ogni parete che incontriamo. E' bello perdersi, girovagando e vagabondando ed è tutto quello che facciamo in attesa di ripartire per San Francesco del Deserto.
Ho scoperto l'isola del Deserto otto anni fa, in occasione di un ritiro di due giorni che i frati permettono a gruppi che desiderano trascorrere un fine settimana un po' fuori dai canoni e cioè con il tempo scandito dai loro ritmi di preghiera, veglia e , vi assicuro, gioia. 
I frati abitanti sono meno di una decina e la loro ospitalità è proverbiale. Con gioia e competenza ci accompagnano a vedere l'isola ed i suoi edifici. La chiesa ed il chiostro e poi il giardino perimetrato da una bellissima cipressaia sulla quale si aprono scorci infiniti sulla laguna. Si narra che qui si fermo' il patrono d'Italia, il poverello d'Assisi, di ritorno da un viaggio in Terra Santa e che qui abbia cercato riparo e silenzio per poter pregare, zittendo a tale scopo anche il coro di uccelli che vi dimoravano. Dopo la canonizzazione i frati sono sempre stati presenti nell'isola tranne che durante il periodo della soppressione napolenica. Con Campoformio già l'Austria cedette i terreni al Patriarcato e questi lo restituì all'ordine dei minori. 
Torniamo in barca, e questa volta sarà l'ultima. Fa molto piu' caldo di prima e ci aspetta oltre un'ora di navigazione, la stanchezza si fa sentire. Qualcuno gioca, c'è chi chiacchiera e chi non sa resistere al peso delle palbebre che non riescono a vincere la forza di gravità e si chiudono.
Rimangono il piacere di una giornata ricca di emozioni, di storia, di scoperte e che ancora una volta è un successo per questo gruppo che ne inanella uno dietro l'altro e che di anno in anno vede confermare e superare il numero dei propri iscritti.
Si parla già di un bis...vedremo il come ed il quando, intanto, però, sicuramente ci si rivede l'anno prossimo senno' che classica sarebbe?



lunedì 11 maggio 2009

LO STRANIERO CHE E' TRA NOI

DOBBIAMO DIRE GRAZIE ALLO STRANIERO CHE E' TRA NOI


di Dionigi Tettamanzi

Mi verrebbe d'iniziare con l'antica citazione biblica: "Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Deuteronomio 10,19). Come a dire, che il fenomeno migratorio, sia pure in modalità e intensità diverse, accompagna sempre la storia dei popoli. 

E che esso deve suscitare, come prima e più immediata forma di solidarietà, la condivisione obiettiva di una medesima situazione. (...) Ma qual è la situazione da noi oggi, nelle nostre città e nei nostri paesi? Potrei rispondere in termini quanto mai sintetici dicendo, anzitutto, che troppe volte e con troppa insistenza negli ultimi tempi si è pensato agli stranieri soltanto come a una minaccia per la nostra sicurezza, per il nostro benessere. 

Con l'immediata conseguenza che il peso dei pregiudizi e degli stereotipi hanno impedito un dialogo autentico con queste persone, finendo per causare spesso il loro isolamento, relegandole così in condizioni che hanno provocato e provocano illegalità e fenomeni di delinquenza. Ma la realtà presenta anche un'altra faccia: noncuranti delle tante e, troppe, eccessive polemiche, molte persone - in modo silenzioso e nel nome della propria fede e di un alto senso umanitario - hanno operato e continuano ad operare per assistere questi "nuovi venuti " nei loro bisogni elementari: il cibo, un riparo o, degli indumenti, la cura dei più piccoli. 

In concreto, penso alla Caritas e alle sue molteplici emanazioni, alla "Casa della Carità " in Milano, a quegli interventi delle amministrazioni locali che hanno saputo distinguersi per intelligenza, umanità e creatività. Penso al "buon cuore" anche di tanti semplici cittadini e ai loro piccoli ma sinceri gesti di aiuto. Siamo così di fronte a una solidarietà in atto, che si fa "dialogo" concreto: un dialogo forse ancora troppo flebile - e per questo da incoraggiare e da sostenere - ma che dice il riconoscimento della comune condizione umana cui tutti, italiani e stranieri di qualsiasi etnia, apparteniamo. 

Cade qui una riflessione elementare, la cui forza razionale invincibile conduce all'adesione, anche se poi la prassi, purtroppo, può divenirne una smentita. Ci sono così tante "etnie" e "popoli" diversi, ma tutte le etnie hanno la loro radice e il loro sviluppo nell'unica etnia umana, così come tutti i popoli si ritrovano all'interno del tessuto vivo e unita - rio dell'unica famiglia umana. (...) Troviamo qui l'approccio culturale nuovo che deve caratterizzare la nostra valutazione e il nostro comportamento - certo nel segno della solidarietà ora affermata - nei riguardi dei migranti. 

Lo indicavo così nel Discorso alla Città per la Vigilia di sant'Ambrogio 2008: "Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l'originalità della propria identità". 

Riprendendo ora la riflessione generale, vorrei riproporre qualche spunto nel segno di una concretezza quotidiana e con un riferimento più specifico alle due realtà della famiglia del lavoro. Il primo passo da compiere dovrebbe condurci a superare una paura: quella che ci impedisce di riconoscere in pienezza l'uguale dignità sul lavoro degli immigrati. In realtà, per non pochi di noi essi sono visti come una minaccia, non solo perché considerati come uomini e donne che disturbano la tranquillità del nostro quieto vivere e del nostro paese, ma anche perché a noi "rubano" il lavoro. E se invece vengono accolti, rischiano di essere trattati come una forza lavoro a buon mercato, in particolare per quelle attività che noi ci rifiutiamo di compiere perché ritenute troppo faticose o poco dignitose. Ma, anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni, diverse forze sociali danno prova di solidarietà attiva con i migranti, creando nuove forme di accoglienza e di inclusione sociale, a cominciare dal lavoro. 

Si tratta di una testimonianza cristiana e civile forte in un contesto di fin troppo facile contrapposizione. Una testimonianza non astratta e fuori della storia, ma in grado di avviare una integrazione all'insegna della solidarietà e della legalità, che diventa dono per tutti e risposta non secondaria alla domanda di sicurezza legittimamente posta da città spaventate e non poco preoccupate, anche per i segnali sconfortanti che vengono dalla cronaca quotidiana. Una testimonianza che deve interpellare tutti e ciascuno. (....) Non è spontaneo per nessuno in queste occasioni rifarsi e ispirarsi allo spirito più radicale del Vangelo e c'è per tutti il rischio di chiudersi in una eccessiva preoccupazione di se stessi, che ci fa scoprire sovente la nostra più grande miseria morale. 

È importante allora acquisire innanzitutto una reale conoscenza della situazione e delle persone, nelle loro qualità positive, nei loro limiti e nelle loro differenze. Solo così riscopriremo gli aspetti positivi della loro nuova presenza, le risorse culturali e religiose di cui sono portatori, la loro capacità di essere protagonisti in diversi ambiti, non appena offriamo loro l'opportunità di farlo. (..) È onesto - ed è bello - riconoscere l'apporto che tanti immigrati danno alla vita delle nostre città e, in termini certo più ristretti ma quanto mai concreti ed efficaci, alla vita delle nostre famiglie. Tanti - in assoluta prevalenza donne - appena giunti in Italia da paesi stranieri si fanno carico - nelle case degli italiani d'origine - dei servizi della casa, della cura dei bambini, dell'assistenza agli anziani e malati. 

Ed è con spirito di ammirazione e di gratitudine che dobbiamo riconoscere che queste stesse donne - le chiamiamo "badanti" - con i loro figli sono le prime persone che pagano il costo di una separazione forzata, dell'esclusione dai diritti, della privazione per se stesse e per i propri familiari. Di conseguenza, come non chiedere che - insieme ai vantaggi che vengono a noi dalla loro presenza e attività - si giunga presto a riconoscere i loro giusti diritti e a migliorare le loro condizioni di lavoro? 

Dal nuovo libro del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, "Non c'è futuro senza solidarietà. La crisi economica e l'aiuto della Chiesa", edizioni San Paolo, in libreria dal 15 maggio (pp.143, 14 euro) 


mercoledì 25 febbraio 2009

ALLA RICERCA DEL PROPRIO ESSERE



Mercoledì delle ceneri
di Enzo Bianchi

Ogni anno ritorna la quaresima, un tempo pieno di quaranta giorni da vivere da parte dei cristiani tutti insieme come tempo di conversione, di ritorno a Dio. Sempre i cristiani devono vivere lottando contro gli idoli seducenti, sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore, tuttavia la Chiesa – che nella sua intelligenza conosce l’incapacità della nostra umanità a vivere con forte tensione il cammino quotidiano verso il Regno – chiede che ci sia un tempo preciso che si stacchi dal quotidiano, un tempo “altro”, un tempo forte in cui far convergere nello sforzo di conversione la maggior parte delle energie che ciascuno possiede. E la Chiesa chiede che questo sia vissuto simultaneamente da parte di tutti i cristiani, sia cioè uno sforzo compiuto tutti insieme, in comunione e solidarietà. Sono dunque quaranta giorni per il ritorno a Dio, per il ripudio degli idoli seducenti ma alienanti, per una maggior conoscenza della misericordia infinita del Signore.
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma è un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede. Sì, la quaresima è il tempo del ritrovamento della propria verità e autenticità, ancor prima che tempo di penitenza: non è un tempo in cui “fare” qualche particolare opera di carità o di mortificazione, ma è un tempo per ritrovare la verità del proprio essere. Gesù afferma che anche gli ipocriti digiunano, anche gli ipocriti fanno la carità (cf. Mt 6,1-6.16-18): proprio per questo occorre unificare la vita davanti a Dio e ordinare il fine e i mezzi della vita cristiana, senza confonderli.
La quaresima vuole riattualizzare i quarant’anni di Israele nel deserto, guidando il credente alla conoscenza di sé, cioè alla conoscenza di ciò che il Signore del credente stesso già conosce: conoscenza che non è fatta di introspezione psicologica ma che trova luce e orientamento nella Parola di Dio. Come Cristo per quaranta giorni nel deserto ha combattuto e vinto il tentatore grazie alla forza della Parola di Dio (cf. Mt 4,1-11), così il cristiano è chiamato ad ascoltare, leggere, pregare più intensamente e più assiduamente – nella solitudine come nella liturgia – la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. La lotta di Cristo nel deserto diventa allora veramente esemplare e, lottando contro gli idoli, il cristiano smette di fare il male che è abituato a fare e comincia a fare il bene che non fa! Emerge così la “differenza cristiana”, ciò che costituisce il cristiano e lo rende eloquente nella compagnia degli uomini, lo abilita a mostrare l’Evangelo vissuto, fatto carne e vita.
Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima ed è caratterizzato, come dice il nome, dall’imposizione delle ceneri sul capo di ogni cristiano. Un gesto che forse oggi non sempre è capito ma che, se spiegato e recepito, può risultare più efficace delle parole nel trasmettere una verità. La cenere, infatti, è il frutto del fuoco che arde, racchiude il simbolo della purificazione, costituisce un rimando alla condizione del nostro corpo che, dopo la morte, si decompone e diventa polvere: sì, come un albero rigoglioso, una volta abbattuto e bruciato, diventa cenere, così accade al nostro corpo tornato alla terra, ma quella cenere è destinata alla resurrezione.
Simbolica ricca, quella della cenere, già conosciuta nell’Antico Testamento e nella preghiera degli ebrei: cospargersi il capo di cenere è segno di penitenza, di volontà di cambiamento attraverso la prova, il crogiolo, il fuoco purificatore. Certo è solo un segno, che chiede di significare un evento spirituale autentico vissuto nel quotidiano del cristiano: la conversione e il pentimento del cuore contrito. Ma proprio questa sua qualità disegno, di gesto può, se vissuto con convinzione e nell’invocazione dello Spirito, imprimersi nel corpo, nel cuore e nello spirito del cristiano, favorendo così l’evento della conversione.
Un tempo nel rito dell’imposizione delle ceneri si ricordava al cristiano innanzitutto la sua condizione di uomo tratto dalla terra e che alla terra ritorna, secondo la parola del Signore detta ad Adamo peccatore (cf. Gen 3,19). Oggi il rito si è arricchito di significato, infatti la parola che accompagna il gesto può anche essere l’invito fatto dal Battista e da Gesù stesso all’inizio della loro predicazione: “Convertitevi e credete all’Evangelo”… Sì, ricevere le ceneri significa prendere coscienza che il fuoco dell’amore di Dio consuma il nostro peccato; accogliere le ceneri nelle nostre mani significa percepire che il peso dei nostri peccati, consumati dalla misericordia di Dio, è “poco peso”; guardare quelle ceneri significa riconfermare la nostra fede pasquale: saremo cenere, ma destinata alla resurrezione. Sì, nella nostra Pasqua la nostra carne risorgerà e la misericordia di Dio come fuoco consumerà nella morte i nostri peccati.
Nel vivere il mercoledì delle ceneri i cristiani non fanno altro che riaffermare la loro fede di essere riconciliati con Dio in Cristo, la loro speranza di essere un giorno risuscitati con Cristo per la vita eterna, la loro vocazione alla carità che non avrà mai fine. Il giorno delle ceneri è annuncio della Pasqua di ciascuno di noi

mercoledì 18 febbraio 2009

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA



"La morte di Fabrizio de Andrè mi lascia senza parole e con un senso di vuoto". Più o meno erano queste le parole appuntate in un breve diario che tenevo in quegli anni e che ancora conservo da qualche parte.

Ricordo che la notizia mi raggiunse quasi appena sveglio, appena messo fuori il naso di casa a Venezia.

Mi colpì il vuoto. Sentivo di aver perso qualcosa che in qualche modo mi era vicino e che mi apparteneva.

Desideravo buttar giù qualcosa in occasione del decennale della morte ma il rischio sarebbe stato quello della banale commemorazione. Questi giorni di riposo forzato, grazie al virus australiano che mi ha colpito, mi hanno dato la possibilità di riflettere con più calma e di avere il tempo necessario per scrivere.

Partiamo da quel senso di vuoto: a cosa era dovuto?

Molti considerano, a ragione, Fabrizio de Andrè un poeta e già negli anni 80 nelle antologie liceali erano contenuti numerosi suoi versi. Inoltre era capace di un’arte difficile: unire in modo eccellente la parola con la musica. Dietro ad ogni canzone c’è uno studio profondo e minuzioso di ricerca lessicale, di rime, di sintesi. I testi descrivono concetti e situazioni in un modo mirabile, in un modo che non ci stai dietro al primo ascolto ma lo devi sentire più e più volte. E più ascolti più capisci, anche a distanza di anni lo apprezzi in modo sempre fresco e rinnovato.

Molti cantanti scrivono bei testi, perché non sono poeti o non sono considerati tali?

A mio avviso il poeta scuote, il poeta dice quello che senti dentro anche tu ma non lo sai dire, il poeta è la voce anche della tua anima. Con la poesia ti commuove, ti stupisce, ti fa dire “è vero è proprio così” oppure “avrei potuto dirlo anch’io” e lo dice in un modo che tu non sai neanche ripetere perché usa conc  etti e figure che non sai tradurre ma senti che ti sono dentro, che ti appartengono.

De Andrè, per me era così. I suoi testi sono da riascoltare in continuazione perché non li comprendi mai fino in fondo ma senti che ti sono vicini.

Ecco, quindi il senso di vuoto: l’aver perso la voce dell’anima. Qualcuno che parlasse al posto mio nel modo più adatto o che mi aiutasse a capire e di cui stimavi l’opinione.

Credo che tutti abbiamo perso qualcosa, come succede quando muore un poeta, perdendo la sua voce e tutto quello che ancora doveva dire scrutando dentro le nostre anime, dentro questa società e dentro questo mondo.

A rendere la sua opera ancor più bella e pregna di significato è la religiosità di cui è cosparsa.

Quasi per uno scherzo del destino la prima canzone del primo album è “Preghiera in gennaio” mentre l’ultima dell’ultimo album è “Smisurata preghiera”. Non so se intimamente pregasse, fosse credente o meno, al di là del suo essere sicuramente contrario a qualsiasi dogma e ordine costituito.

La religiosità che in lui avverto è fatta di libertà dagli schemi, libertà di pensiero e dai luoghi comuni. E’ ciò che gli permette di vedere la dignità degli ultimi e degli emarginati, di vederli protagonisti, comunque, anche se rifiutati dalla società.

Se in “Preghiera in Gennaio” si invocava la clemenza per i suicidi (fu scritta dopo la morte di Tenco) che per scelgono questa fine piuttosto che assecondare l’ignoranza e l’ipocrisia. De Andrè si rivolge ad un Dio misericordioso che ammette al Paradiso “perché l’inferno esiste solo per chi ne paura”.

In “Smisurata preghiera” lo stesso Fabrizio afferma, durante un concerto: « L'ultima canzone dell'album è una specie di riassunto dell'album stesso: è una preghiera, una sorta di invocazione... un'invocazione ad un'entità parentale, come se fosse una mamma, un papà molto più grandi, molto più potenti. Noi di solito identifichiamo queste entità parentali, immaginate così potentissime come una divinità; le chiamiamo Dio, le chiamiamo Signore, la Madonna. In questo caso l'invocazione è perché si accorgano di tutti i torti che hanno subito le minoranze da parte delle maggioranze.

Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi... dire "Siamo 600 milioni, un miliardo e 200 milioni..." e, approfittando del fatto di essere così numerose, pensano di poter essere in grado, di avere il diritto, soprattutto, di vessare, di umiliare le minoranze.

La preghiera, l'invocazione, si chiama "smisurata" proprio perché fuori misura e quindi probabilmente non sarà ascoltata da nessuno, ma noi ci proviamo lo stesso.»

Tra i due passano 28 anni, 15 album e 128 canzoni e, secondo statistiche attendibili (considerato che ne è nato un libro), si scopre che i quattro termini più utilizzati dal cantautore nell’intera sua produzione sono: "Dio/Signore", "Amore", "Cielo" e "Vento"; questi ultimi utilizzati sovente in senso metafisico (vento è spesso usato nel significato biblico di ruah, il soffio dello Spirito).

La religiosità che più mi piace e di cui parlo è una forte sensibilità e rispetto dei deboli ed una continua critica e condanna al sopruso dei forti e dei potenti, sempre ed in ogni momento, fino alla fine. Senza essere giustizialista o giudicante ma con un approccio, certamente diretto ma che lascia all’ascoltatore la libertà critica di costruirsi da solo il suo pensiero.

Gran rispetto, dicevo, e gran sensibilità verso i meno fortunati come non si sono viste altrove e cioè in luoghi e realtà che sarebbero deputati a questo e dove, in linea teorica, potrebbero fiorire i modo naturale.

Il De Andrè mangiapreti, quindi, è forse il De Andrè autentico ma comunque ancora libero di non perdere la speranza e di rivolgersi autenticamente e senza mediazioni ad una dimensione piu’ elevata.

Oggi sarebbe stato il suo compleanno.

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giovedì 12 febbraio 2009

CHIEDETE SCUSA A BEPPINO ENGLARO

Chiedete scusa a Beppino Englaro
di Roberto Saviano

Da italiano sento solo la necessità di sperare che il mio paese chieda scusa a Beppino Englaro.  Scusa perché si è dimostrato, agli occhi del mondo, un paese crudele, incapace di capire la sofferenza di un uomo e di una donna malata. Scusa perché si è messo a urlare, e accusare, facendo il tifo per una parte e per l'altra, senza che vi fossero parti da difendere. 

Qui non si tratta di essere per la vita o per la morte.  Non è così.  Beppino Englaro non certo tifava per la morte di Eluana, persino il suo sguardo porta i tratti del dolore di un padre che ha perso ogni speranza di felicità - e persino di bellezza - attraverso la sofferenza di sua figlia. Beppino andava e va assolutamente rispettato come uomo e come cittadino anche e soprattutto se non si condividono le sue idee. Perché si è rivolto alle istituzioni e combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, ha solo chiesto che la sentenza della Suprema Corte venisse rispettata. 

Senza dubbio chi non condivide la posizione di Beppino (e quella che Eluana innegabilmente aveva espresso in vita) aveva il diritto e, imposto dalla propria coscienza, il dovere di manifestare la contrarietà a interrompere un'alimentazione e un'idratazione che per anni sono avvenute attraverso un sondino. Ma la battaglia doveva essere fatta sulla coscienza e non cercando in ogni modo di interferire con una decisione sulla quale la magistratura si stava interrogando da tempo. 

Beppino ha chiesto alla legge e la legge, dopo anni di appelli e ricorsi, gli ha confermato che ciò che chiedeva era un suo diritto. È bastato questo per innescare rabbia e odio nei suoi confronti? Ma la carità cristiana è quella che lo fa chiamare assassino? Dalla storia cristiana ho imparato ha riconoscere il dolore altrui prima d'ogni cosa. E a capirlo e sentirlo nella propria carne. E invece qualcuno che nulla sa del dolore per una figlia immobile in un letto, paragona Beppino al "Conte Ugolino" che per fame divora i propri figli? E osano dire queste porcherie in nome di un credo religioso. Ma non è così. Io conosco una chiesa che è l'unica a operare nei territori più difficili, vicina alle situazioni più disperate, unica che dà dignità di vita ai migranti, a chi è ignorato dalle istituzioni, a chi non riesce a galleggiare in questa crisi. Unica nel dare cibo e nell'essere presente verso chi da nessuno troverebbe ascolto. I padri comboniani e la comunità di sant'Egidio, il cardinale Crescenzio Sepe e il cardinale Carlo Maria Martini, sono ordini, associazioni, personalità cristiane fondamentali per la sopravvivenza della dignità del nostro Paese. 

Conosco questa storia cristiana. Non quella dell'accusa a un padre inerme che dalla sua ha solo l'arma del diritto. Beppino per rispetto a sua figlia ha diffuso foto di Eluana sorridente e bellissima, proprio per ricordarla in vita, ma poteva mostrare il viso deformato - smunto? Gonfio? - le orecchie divenute callose e la bava che cola, un corpo senza espressione e senza capelli. Ma non voleva vincere con la forza del ricatto dell'immagine, gli bastava la forza di quel diritto che permette all'essere umano, in quanto tale, di poter decidere del proprio destino. A chi pretende di crearsi credito con la chiesa ostentando vicinanza a Eluana chiedo, dov'era quando la chiesa tuonava contro la guerra in Iraq? E dov'è quando la chiesa chiede umanità e rispetto per i migranti stipati tra Lampedusa e gli abissi del Mediterraneo. Dove, quando la chiesa in certi territori, unica voce di resistenza, pretende un intervento decisivo per il Sud e contro le mafie. 

Sarebbe bello poter chiedere ai cristiani di tutta Italia di non credere a chi soltanto si sente di speculare su dibattiti dove non si deve dimostrare nulla nei fatti, ma solo parteggiare. Quello che in questi giorni è mancato, come sempre, è stata la capacità di percepire il dolore. Il dolore di un padre. Il dolore di una famiglia. Il "dolore" di una donna immobile da anni e in una condizione irreversibile, che aveva lasciato a suo padre una volontà. E persone che neanche la conoscevano e che non conoscono Beppino, ora, quella volontà mettono in dubbio. E poco o nullo rispetto del diritto. Anche quando questo diritto non lo si considera condiviso dalla propria morale, e proprio perché è un diritto lo si può esercitare o meno. È questa la meraviglia della democrazia. Capisco la volontà di spingere le persone o di cercare di convincerle a non usufruire di quel diritto, ma non a negare il diritto stesso. Lo spettacolo che di sé ha dato l'Italia nel mondo è quello di un paese che ha speculato sull'ennesima vicenda. 

Molti politici hanno, ancora una volta, usato il caso Englaro per cercare di aggregare consenso e distrarre l'opinione pubblica, in un paese che è messo in ginocchio dalla crisi, e dove la crisi sta permettendo ai capitali criminali di divorare le banche, dove gli stipendi sono bloccati e non sembra esserci soluzione. Ma questa è un'altra storia. E proprio in un momento di crisi, di frasi scontate, di poco rispetto, Beppino Englaro ha dato forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Sarebbe bello se l'epilogo di questa storia dolorosa potesse essere che in Italia, domani, grazie alla battaglia pacifica di Beppino Englaro, ciascuno potesse decidere se, in caso di stato neurovegetativo, farsi tenere in vita per decenni dalle macchine o scegliere la propria fine senza emigrare. È questa l'Italia del diritto e dell'empatia - di cui si è già parlato - che permette di rispettare e comprendere anche scelte diverse dalle proprie, un'Italia in cui sarebbe bellissimo riconoscersi. 

© 2009 by Roberto Saviano 
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency